GIÙ LE ZAVORRE DALLA RUPE TARPEA

Eccoci alla prese con l’ennesima impietosa analisi del lucido Gabriele Adinolfi. Non fa sconti a nessuno. Si potrà non concordare con i toni dello scritto, si potranno rigettare pregiudizialmente o meno i suoi contenuti o condividerli in parte o in toto. Lo ritengo comunque un contributo prezioso proprio in virtù della sua durezza. E preferisco di gran lunga questo tipo di analisi, che le patetiche “fustigate” dei depositari delle verità assolute, delle alternative uniche, che se la cantano e se la suonano. Sforzarci di meditare, tentare di scrostarci da mentalità e atteggiamenti di comodo può risultare più salutare di mille demagogiche polemiche.

Luca Zampini

Giù le zavorre dalla Rupe Tarpea

(scritto da Gabriele Adinolfi; lunedì 21 Novembre 2011)

È tempo di selezione, di coraggio, di entusiasmo e non di riunire i lamentosi per guaire alla luna

Riecco la cantilena.

Non appena accade qualcosa di sconvolgente – e il golpe tecnocratico certamente lo è – qualcuno si mette in testa che ci sarà una sana reazione.

A che cosa dovrebbe portare esattamente questa “sana reazione” non si sa.

A capitalizzare un po’ di voti (ovvero stipendi e rimborsi elettorali) in una rinvigorita opposizione parolaia assisa nel più inutile dei parlamenti? A ricostruire un’identità proustianamente immaginata solo ed esclusivamente nelle forme e nei gesti dei ghetti andati? A produrre mitizzate rivolte di massa? A far da preludio a utopiche rivoluzioni popolari o nazionali?

Illusorie quisquilie.

Così si risente parlare di unità di forze nazionali (come se ne esistessero di tali forze…); un’unità che non si sa bene se sarebbe l’effetto del terzo matrimonio fallito tra i partitelli orfani della nipote del Duce o di una loro confluenza nel partito storaciano.

Con risultati patetici, in ambo i casi, e preludio immancabile di nuovi divorzi, visto e considerato che né quei partiti, né i loro metodi, né le loro interpretazioni del reale sono in condizioni di produrre altro, e che, soprattutto, hanno classi dirigenti incapaci persino di gestire un condominio di un modesto immobile di tre o quattro appartamenti.

Troppo pretendere

Troppo pretendere che in queste condizioni si reagisca con una logica articolata e costruttiva.

Troppo pretendere che si capisca cosa è in gioco nell’offensiva di casta e cosa può essere realisticamente controbattuto.

Troppo pretendere che ci si attrezzi per una logorante traversata in un terreno minato e desertico cercando di centrare durante la lunga marcia quanti più obiettivi possibile in ben tre direzioni (difese sociali; organizzazione di potere autonomo; potenza europea, orientata beninteso molto diversamente da ora).

Perché si possa ragionare e soprattutto agire in modo così articolato servirebbe a monte l’acquisizione di una mentalità rivoluzionaria che mettesse assieme concezione ideale, analisi del reale, cognizioni scientifiche, padronanza della storia, impianto strategico. E che ci consentisse di intervenire nelle dinamiche politiche e sociali con la freddezza indispensabile per capitalizzare il capitalizzabile e non per restarne invece emotivamente invischiati.

Mapin mapon

Evitiamo di pretendere troppo – anche se si tratterebbe in realtà del minimo indispensabile per una forza che si vuole alternativa – e limitiamoci al ragionamento immediato.

La reazione possibile al golpe di casta sarà l’espressione di un populismo nazionale?

Andrà, come in Francia, in Fiandre, in Olanda, a produrre una sacca del disagio e del rigetto che si condenserà nell’emarginazione massiccia di una parte pur cospicua dell’elettorato che, rappresentando il male (la “xenofobia”, il “razzismo”) farà da involontario collante alla coalizione democratica? L’effetto del golpe sarà, insomma, la regressione del populismo leghista, del liberalpopulismo e di una certa anima missina che passeranno dall’area periferica dell’amministrazione al limbo, lasciando così imperare per decenni e decenni l’apparato cattomarxista che sosterrà banchieri e usurai?

Non è una cosa impossibile. A molti quest’ipotesi piacerebbe perché non hanno alcuna voglia di battersi, di vincere o, quantomeno, di mettere i bastoni tra le ruote a chi sta vincendo, ma sognano osterie dove ubriacarsi comodamente insieme agli altri cornuti dal destino, ad altre comparse del political show, accontentandosi di potersi dire che le cose andrebbero diversamente se ci fossero loro al comando. Ansiosi di guardarsi allo specchio e di ammirare quanto sono belli e bravi nel proprio insignificante recitare.

Gli avventori delle osterie travestite da partiti avranno questa fortuna? Potranno esser raggiunti da delusi che speravano nella maggioranza, potranno incontrarsi con altri, come diceva giustamente Gaber, uniti solo per un autobus perso? Potranno essere così miracolati da ritrovarsi in sei o sette a fare mapin mapon laddove prima erano in due o tre a far mapin mapon?

Giù dalla Rupe Tarpea!

Se questo fosse questo il caso, si sappia già da ora quali ne saranno gli effetti.

Il primo, ovviamente, sarà la pur limitata fortuna economica di qualche “duro e puro” che diverrà parassita del malcontento. Il secondo sarà il consolidamento immancabile (per reazione alla reazione) della coalizione “democratica” e dunque il prolungamento indefinito del suo dominio.

Il terzo risultato di un eventuale ricasco del malcontento verso i lidi di “forze nazionali” sarà la porta aperta all’avvelenamento americano dello “scontro di civiltà” con tanto di sbandata dei nostri eroi verso tutte le tesi antieuropeiste di New York e a sostegno dell’imperialismo occidentalista e antimediterraneo insediato a Tel Aviv.

È cosa fatta completamente in Fiandre e Olanda e in corso, ma già ampiamente realizzata, in Francia.

Insomma, chi s’illuda che la reazione al golpe tecnocratico possa portare a una svolta di questo genere deve tener ben presente che di una svolta pericolosa, oltre che improduttiva, si tratterebbe e che, qualora questa dovesse malauguratamente prender corpo, è solo con animo autonomo, esterno, rapace, diverso e perfino avverso che la gente seria dovrà dialogarvi per contendere a chi la impersonerà il monopolio dell’informazione e della formazione interna e per cercare possibilmente di disarcionare i cavalieri di queste giostre anziché aiutarli nelle loro farse.

Altro che unione delle forze nazionali, delle destre, dell’area di destra, dei valori della destra!

Giù dalla Rupe Tarpea! Via questi sgorbi dall’orizzonte! Via questi tappi che comprimono e corrompono ogni sana miscela!

Il populismo berluscon/leghista

Ma non è affatto detto che in Italia sarà proprio questo il tipo di cesto in cui cadranno i frutti del rigetto.

Perché qui abbiamo ancora due eccezioni rispetto al resto dell’Occidente. La Lega, che è un partito popolare e Berlusconi che è un leader populista. Non si sa cosa faranno di qui al 2013 questi due soggetti e in che modo andranno a rapportarsi con Storace, con parte dell’implosa AN e anche con settori della democrazia cristiana associazionista. Formigoni, in particolare, potrà decidere il futuro di Alemanno e Fini; se si muoverà in una direzione piuttosto che nell’altra potrà addirittura avere il merito di eliminare il primo dalla scena e di nuocere non poco al secondo.

Il nodo sul futuro di queste formazioni non è stato sciolto, ma quando lo sarà potremmo magari accorgerci che ancora una volta qui assisteremo alla costituzione di un quadro populista atipico rispetto a quelli esteri.

In confronto al precedente, questo scenario ha due elementi in più. Non è obbligatoriamente perdente e onanista e non è destinato dalla nascita a rappresentare un collante dell’anti-Europa.

È quindi uno scenario meno agghiacciante e debilitante di qualsiasi “rifondazione missina”, ma va tenuto conto che, se anche si costituisse una forza populista con un minimo di efficacia, essa resterebbe mutila da un punto di vista strategico se si limiterà a essere un prodotto della destra e ad avere un orizzonte di destra.

Sicché, seppur come ipotesi resti preferibile al ricettacolo post/missino, la sua realizzazione non potrà essere tenuta in conto altrimenti che con occhio clinico, con sguardo cinico e senza particolare coinvolgimento.

Il populismo di sinistra

Può invece rappresentare un potenziale dirompente l’allargamento del populismo oltre i confini della destra.

A contestare la svolta tecnocratica non stanno infatti soltanto la Lega e la Destra ma anche Sel e i grillini. Non è un dato insignificante, in quanto sarà duro far digerire al popolo delle sinistre il sostegno incondizionato offerto a un governo che taglierà pensioni, salari, posti di lavoro, ammortizzatori sociali, che metterà famiglie in mezzo a una strada, che si approprierà dei risparmi senza offrire in cambio nulla, ma assolutamente nulla.

Il Pd sta giocando alla roulette russa, ma lo stesso Idv dell’americano Di Pietro vive con disagio – e prova a risolvere con qualche boutade dialettica – il sostegno alla Banca Bassotti.

Il populismo di sinistra, forse preannunciato da Chavez, inizia ad essere un fenomeno che serpeggia.

In Francia è una realtà, la cui cifra non è poi inferiore a quella del populismo nazionale.

Un dato tra i tanti, anche se si tratta di un artificio costruito a tavolino, è comunque rivelatore.

Alle primarie tra i candidati socialisti all’Eliseo, Montenbourg che ha puntato tutto sulla de-globalizzazione e sul protezionismo, ha preso il 17% dei voti tra gli iscritti al partito. Un’enormità se si considera il contesto ideologico e culturale in cui si è battuto.

Il potenziale peronista

Chiariamo bene. Non sto affatto insinuando l’ipotesi di un’alleanza tra destre terminali e sinistre in agonia. Non è che ritenga che Vendola + Storace faccia sintesi.

Quello che affermo è che esistono istanze precise tra diversi settori della popolazione, incasellati lontano l’uno dall’altro sia per appartenenze tribali che per schemi ideologici.

Quello che intendo dire è che forze sociali, gruppi produttivi, famiglie risparmiatrici, gente a rischio di lavoro e di tetto, hanno le medesime intenzioni di fondo ma sono chiuse in vicoli ciechi dai loro rappresentanti politici e sindacali. Nei quali rappresentanti ripongono sempre meno fiducia, sicché il tempo delle autonomie e del rifiuto delle deleghe può essere vicino.

Esiste dunque un potenziale di nuove dialettiche, di nuove dinamiche, di nuove espressioni e di nuove sintesi. Un potenziale “peronista” che va perseguito non con le alleanze trasversali ma con confluenze oggettive, di base, costruite nello spirito del sindacalismo rivoluzionario.

Non suggerisco minimamente alleanze inter-ghettiche tra opposte isterie e men che meno il “superamento” delle singole culture politiche e dei reciproci simboli di riferimento.

Consiglio invece – a tutti coloro che hanno sogni di cambi radicali – l’avvio di una “strategia dell’attenzione”, l’educazione ad assumere uno sguardo attento e selettivo alla ricerca di quanto fuori dai rispettivi mondi di appartenenza possa andare a seminare qualcosa di nuovo; non necessariamente cooperando.

Un qualcosa di nuovo che, in un’articolazione del tutto plurale, contribuisca a “fare movimento”.

Far movimento, nella pluralità dei poli, è un fattore necessario ma insufficiente se, a latere, non si opera strutturando lobbisticamente le autonomie e influenzando le nuove élites in modo da farsi trovare al momento opportuno, in una colonia disarticolata come lo sarà la nostra dopo la cura-Monti, ad un crocevia decisivo sì da esser decisivi nel crocevia.

È tempo di minoranze qualificate

La tragedia italiana, una tragedia la cui portata pratica forse non sarà inferiore a quella dell’era badogliana, può anche rivelarsi un’opportunità unica.

Per coglierla però si deve maturare, ci si deve radicalizzare (e non estremizzare come fa chi è privo fondamento ideale o di spina dorsale), ci si deve attrezzare. Si devono scegliere le linee e saperle seguire.

Se ci si orienta verso la costruzione di un’ipotesi peronista non si deve affatto annacquare la propria identità, né limitare l’ostentazione dei propri colori e dei propri riferimenti come s’intende di solito quando si prevedono aperture.

Ciò è frutto di condizionamenti e luoghi comuni in cui incappano gli insicuri.

Al contrario, proprio sottolineando e ostentando la propria identità si potrà aprire un dialogo selettivo verso chi sarà disposto a rinunciare alle trappole dell’antifascismo e dell’anti-islamismo, trappole sulle quali si fonda il divide, impera et contra pone con cui l’oligarchia atlantista commissariata dalle multinazionali e serva delle banche tiene racchiuse le emozioni e rende inutili le energie di una reazione fuorviata.

Per puntare a tutto ciò, a cogliere il momento, a costruire autonomia, potere, lobby, a far movimento, a influenzare le élites, a divenire decisivi nel momento decisivo, si deve partire dalla selezione, da una selezione assoluta e precisa che si accompagni alla più consapevole radicalità.

Non è perciò tempo di mettere assieme affannosamente gli scontenti.

È quanto mai tempo, al contrario, di minoranze qualificate, organizzate e non disposte per nessuna ragione a cambiar passo, metodo, obiettivi o traguardi solo per accontentare sentimentalmente i disorientati. Radicalismo non è assistenzialismo ma propensione a cambiare il mondo. Perché funzioni è meglio sfrondare e persino ridurre i numeri che non allargare scriteriatamente.

Bisogna capire che l’occasione è irripetibile e che offre anche la possibilità finora inedita di vincere.

E si vince solo con i vincenti e non con gli sfigati e i lamentosi. Lasciarsi appesantire da loro sarebbe criminale.

Fonte: Noreporter

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