SOLSTIZIO, NATALE, SIMBOLISMI E SIGNIFICATO TRADIZIONALE

Nell’auspicio di fare cosa gradita ai nostri associati e ai nostri lettori, pubblichiamo qui alcuni scritti – datati e recenti – meritevoli d’esser letti in relazione alla visione non superficiale delle festività del periodo, augurandoci che possano fungere da stimolo per interrogativi, riflessioni e ulteriori approfondimenti.

Buona lettura e auguri!

SOLSTIZIO D’INVERNO

“In linguaggio astronomico il solstizio d’inverno è il giorno in cui il sole tocca il punto più basso dell’ellittica, quasi come se si allontanasse e sprofondasse nella notte. All’epoca delle grandi glaciazioni, l’umanità di razza bianca rimasta sul continente europeo celebrava in questo giorno la morte e la resurrezione del sole. All’alba, dopo la notte più lunga dell’anno, fuochi a forma di ruota salutavano il sole invitto risorgente dall’abisso. Oggi, sull’orizzonte dell’Europa, è solstizio d’inverno, un interminabile inverno di servitù e di vergogna. Ma noi crediamo, noi vogliamo credere all’imminente resurrezione della luce”.

Adriano Romualdi

Il solstizio d’inverno nel vecchio calendario Giuliano cadeva il 25 dicembre e celebrava le nozze della notte più corta con il giorno più lungo. La rinascita del mondo.

Il termine solstizio viene dal latino solstitium, che significa letteralmente “sole fermo”, perchè nell’emisfero nord della terra, nei giorni dal 22 al 24 dicembre, il sole sembra fermarsi in cielo, fenomeno tanto più evidente quanto più ci si avvicina all’equatore.

SOLI INVICTO

In quel periodo il sole raggiunge il punto di massima distanza dal piano equatoriale, la notte raggiunge la massima estensione e la luce del giorno la minima. Si verificano cioè la notte più lunga e il giorno più corto dell’anno.

Subito dopo il solstizio, la luce del giorno torna gradatamente ad aumentare e il buio della notte a ridursi fino al solstizio d’estate, in giugno, col giorno più lungo dell’anno e la notte più corta. Il giorno del solstizio cade generalmente il 21, ma per l’inversione apparente del moto solare diventa visibile il terzo/quarto giorno successivo. Il sole, quindi, nel solstizio d’inverno giunge nella sua fase più flebile di luce e calore, per tornare vitale e “invincibile” sulle stesse tenebre. Insomma il 25 dicembre il sole rinasce, ha il nuovo “Natale” dell’anno.

Il solstizio d’inverno iniziò ad essere celebrato già dai nostri antenati, ad esempio presso Stonehenge in Gran Bretagna, e in Irlanda, in Francia, in Iran, e nella Val Camonica, in Italia, già in epoca preistorica e protostorica.

Ma il 25 dicembre è associato al giorno di nascita o di festa di parecchie divinità antecedenti al Cristo che hanno ispirato in diversi lati la nuova religione.

I mosaici e gli affreschi raffiguranti immagini di Iside seduta che tiene in braccio Horus con la corona solare sul capo, sembra abbiano ispirato molte immagini della Madonna col Bambino con la stessa caratteristica.

APOLLO

Così il culto di Mitra fu il culto più concorrenziale al cristianesimo e col quale il cristianesimo si fuse un poco, anche perché pure Mitra in alcuni miti era stato partorito da una vergine, aveva dodici discepoli e veniva soprannominato “il Salvatore”.

Così a Babilonia, nel 3000 a.c. circa, veniva festeggiato il dio Sole babilonese Shamash, e successivamente la Dea Ishtar con suo figlio Tammuz, considerato l’incarnazione del Sole. Anche Ishtar veniva rappresentata con un’aureola di 12 stelle sul capo, come la Madonna, e col bambino tra le braccia, bambino che poi cresceva e moriva per risorgere dopo tre giorni.

Nei giorni del solstizio d’inverno, si svolgeva in onore di Dioniso una festa rituale chiamata Lenaea, “la festa delle donne selvagge”, dove veniva celebrato il Dio che “rinasceva” bambino dopo essere stato fatto a pezzi. Ma era anche il giorno natale sia di Ercole che di Adone.

Il Dio Mitra, identificato come Sol Invictus dai militari romani tra cui si diffuse molto, si incarnò nascendo da una donna vergine nel solstizio d’inverno, fu adorato dai pastori, ebbe dodici discepoli, fu ucciso da una lancia che trapassò il suo costato, e risorse dopo tre giorni.

Oggi il Natale e il Capodanno rappresentano due differenti ricorrenze di cui la prima viene festeggiata il 25 Dicembre, l’altra il 1° Gennaio. Per i Romani le due date coincidevano, perché il Natale era il “NATALIS SOLIS INVICTI” che segnava il ciclo dell’anno nuovo.

SOLIS NATALIS INVICTUS

Il culto del Sole Invitto, cioè non vinto, si diffuse a Roma per la prima volta con l’imperatore Eliogabalo (sebbene vi siano emissioni monetali antecedenti del Sole, almeno dell’epoca di Caracalla), che tentò prematuramente di imporre il culto di Elagabalus Sol Invictus, il Dio-Bolide solare della sua città natia, Emesa, in Siria. Eliogabalo fece costruire un tempio dedicato alla nuova divinità sul Palatino. Con la morte violenta dell’imperatore nel 222 questo culto cessò di essere coltivato a Roma, anche se molti imperatori continuarono ad essere ritratti sulle monete con l’iconografia della corona radiata solare per quasi un secolo.

Nessun altro mito si adatta in modo più compiuto al destino di Roma, simboleggiando l’imperitura energia di centro spirituale “Per questo anche noi chiamiamo Giano padre, venerando con questo nome il Sole”. Così si esprime Macrobio, per bocca del pontifex Solis Vettio Agorio Pretestato, nei suoi Saturnalia, opera di vasto sapere e alta dottrina composta nel V sec. e.v., chiarendo che l’antico Dio solare dell’età del bronzo Ani si era trasmesso ai romani col nome di Janus.

In alcune serie di aes grave (bronzo pesante – le monete pesanti in bronzo dei primi tempi della Repubblica) del Lazio, dell’Umbria e dell’Etruria ricorre su una delle facce, in sostituzione della testa bifronte di Giano, una ruota, il disco del sole o addirittura la testa radiata del Dio. L’iconografia delle monete, da cui traspare con molta evidenza la solarità come principale attribuzione di Ani-Janus attesta ancora nel III sec. a.e.v. una concezione religiosa più vicina a quella originaria, ancora fortemente radicata nelle popolazioni delle campagne. Il culto del Sole appare, infatti, preminente su ogni altro tra le genti italiche sin dalla più alta preistoria.

In Sardegna il Sole era la divinità primaziale, identificato e simboleggiato con il toro, come mostrano alcune monete che portano nel verso la rotella solare e il possente animale cornuto. Alcuni nuraghi, costruzioni tipiche della civiltà sarda, sono calibrati in modo che, togliendo la pietra apicale, che alla sommità della pseudo-cupola chiude il vano interno (tholos), il raggio del Sole, che a mezzogiorno del solstizio d’estate penetra nella costruzione attraverso il foro, illumini una nicchia in cui doveva esser posta un’immagine del Nume che appariva essere la sorgente della luce, risaltando in modo mirabile nel resto dell’ambiente immerso in un’oscurità più o meno profonda. La teofania era un evento palese per tutti gli astanti e la circostanza che la divinità si degnasse di visitare il tempio a lei innalzato, il nuraghe, in un solo periodo dell’anno, e cioè nel solstizio estivo, e per un certo lasso di tempo, doveva esercitare un’azione potente sulle genti che vi assistevano e che avrebbero propagato il fausto evento.

Un’illuminante connessione del Dio Janus con la civiltà nuragica è offerta dalla presenza in Sardegna delle domus de Janas. La parola jana, che attualmente riveste il significato di fata, è l’epigone semantica di una Dea Jana, corrispondente femminile di Janus, di cui parla Macrobio, esprimente il parallelismo della identificazione di Janus come divinità solare in Apollo e di Jana nella Dea lunare Diana.

Janus nella festa dedicatagli nel calendario romano al 9 gennaio (Agonium) è associato a Juno, suprema Dea femminile, in un arcaico legame che risale alle origini pre-latine in cui l’etrusco Ani ha come paredra Uni. La diade etrusca Ani-Uni è il riflesso di una devozione ancora più antica, pre-etrusca, che affonda le sue radici nell’Italia primigenia. L’Ani etrusco della protostoria è il continuatore del Dio solare della civiltà neolitica e del bronzo.

In più di un centinaio di scene ritratte nelle incisioni rupestri della Valcamonica, in Lombardia, risalenti al II millennio avanti quest’era, il motivo del Sole appare illustrato nelle sue attribuzioni complesse. Si riconoscono anche costruzioni col disco solare, presumibilmente capanne dedicate al culto. Dalle incisioni camune emerge anche uno stretto rapporto tra il sole e il cervo, fra i raggi dell’astro lucente e le corna dell’animale, nonché tra culto solare e sessualità, come potenza creativa e della crescita. Alcuni personaggi fallici recano sulla testa un’acconciatura a raggi, la stessa che si vedrà nei bronzetti votivi di figurine di offerenti di epoca romana a dimostrazione dell’ininterrotta persistenza nel tempo del culto solare. La corona radiata, composta quasi sempre da un numero maggiore di cinque raggi, posta sul capo degli offerenti, la cui fattura spesso modesta induce a considerarli ex votis di ambiente rurale, ripete l’abbigliamento rituale di molti personaggi incisi sulle rocce camune, come la figurina di uno dei grandi massi di Cemmo che ha, oltre le braccia levate in atto di orante, la corona radiata che le orna la testa.

La preminenza del culto solare è dimostrata anche dalle numerose incisioni rupestri del monte Bego, nelle Alpi Marittime, oggi in territorio francese, santuario federale dei Liguri, sulle cui armi era raffigurato il cigno, nel quale era stato trasformato per pietà da Giove il loro re Cicno, disperato per la scomparsa di Fetonte, figlio del Sole. Fra le schiere degli alleati di Enea, scesi in lotta contro Turno, Virgilio presenta Cunaro, “duce dei Liguri”, e Cupavone, figlio di Cicno, “dal cui cimiero si alzano delle penne di cigno”. Ed era su un carro trainato da cigni che Apollo-Sole si muoveva dalle regioni boreali, su cui regnava, per raggiungere l’isola di Delo nell’Egeo, ove aveva visto la luce, allorché vi sbocciavano i primi fiori, nel corso di una processione che aveva come tappa principale il santuario epirotico di Dodona. Qui gli Iperborei erano accolti dai sacerdoti Pelasgi custodi della profetica quercia sacra a Giove, indicato con lo stesso epiteto Naios, piovoso, con cui era adorato anche a Delo. I documentati strettissimi rapporti religiosi tra il santuario epirotico e quello egeo ci inducono a comprendere l’origine pre-ellenica del culto di Apollo recato in Grecia dai divini Pelasgi, che come cicogne migrarono dall’antica madre italica per poi farvi ritorno, dopo aver civilizzato il Mediterraneo tutto. Anche l’oracolo di Apollo a Delfi era di fondazione italica, come ricorda Eschilo, narrando che il Dio ne prese possesso “accompagnato o dir meglio preceduto dai figli di Vulcano che gli sgombravano la via rendendo culto e sicuro l’infesto suolo”. E se la sede di Vulcano era sull’Etna, i suoi figli non potevano che essere i Siciliani, i Ciclopi dalla vista circolare propria degli esseri onniveggenti quali sono per eccellenza gli Dei solari.

È per tale ragione che Giulio Cesare Ottaviano Augusto, Padre della Patria e unificatore dell’Italia, nello sforzo di ricostruire gli edifici sacri, di restituire i santuari alla loro dignità, di assumere nella sua persona una precisa serie di cariche sacerdotali dai forti caratteri primordiali e rituali, eresse il tempio di Apollo all’interno del Pomerio, sul Palatino, ove soltanto i culti patrii più vetusti potevano avere ingresso. E di antichissima adorazione Apollo-Sole era oggetto nel Lazio. Evelino Leonardi ricorda che: “Da una radice Sur che significa splendere, si ha in sanscrito suria, che significa Sole. E abbiamo nel nostro Soratte il Monte del Sole, sacrum Phoebo Soracte, come dice Silio; e a Terracina, il tempio ad An-Sur il non spento, l’inestinguibile, il Sole”. Così l’etrusco Arrunte nell’Eneide pregava il Nume di concedergli l’onore di colpire l’amazzone Camilla che seminava morte tra le schiere tirreniche: “Sommo degli Dei, Apollo custode del Santo Soratte,/ tu che primi fra tutti veneriamo, a cui alimentiamo / le fiamme con cataste di pino e, fidando / nella pietà, camminiamo, noi tuoi adoratori, / tra il fuoco e su molta brace, concedi / di cancellare codesta vergogna / con le nostre armi, tu che puoi tutto”.

In tutte le opere di Virgilio la presenza di Apollo è fondamentale e l’attributo di phoebus, che si trova ripetuto molte volte nelle egloghe, sottolinea il suo legame con la luce e con lo splendore del sole e molto spesso è l’attributo che identifica Apollo con lo stesso astro diurno, il Dio Sole. È il Regnum Apollinis, annunciato dai Libri Sibillini come il fine della funzione storica della gens Iulia, che Ottaviano intende restaurare. Svetonio riferisce che il padre del futuro Augusto, al momento della nascita del figlioletto, ebbe in sogno la visione di un sole che si levava dal seno della moglie. Nigidio Figulo, sapiente pitagorico, predisse per questo neonato un destino di dominatore universale, confermato dall’oracolo di Dioniso del Perperikon, in Tracia, odierna Bulgaria, nei monti Rodopi sacri a Orfeo. Nella persona di Augusto si incarna una sorta di “luce divina”, una speciale “potenza radiante”, che avrebbe, poi, comportato per intrinseca capacità creativa, quella che fu chiamata non senza significato mistico, la pax augustea. È il titolo stesso più caratteristico di Ottaviano, Augustus, a designare colui che svela la presenza della forza creativa nel tessuto del mondo, comunicandola e restituendo al Lazio e all’Italia quella condizione aurea che gli apparteneva dal tempo di Saturno, dichiarando la fine delle guerre civili e proclamando l’instaurazione della pax Deorum “fermata” sul piano rituale nell’edificio dell’Ara Pacis nel Campo di Marte. Ottaviano diviene così l’incarnazione stessa di un Cosmokrator che dirige i destini del mondo e degli uomini, la personificazione del rector e del pacator orbis, un’epiclesi dell’Apollo solare. Il cammeo di Vienna documenta in modo inequivocabile il legame tra Augusto e il segno zodiacale del Capricorno, sotto la cui costellazione il principe era stato concepito, al punto di svolta dell’asse cosmico, il solstitium. La nascita del sole umano veniva, perciò, a coincidere con quella dell’astro celeste, mentre il cosmo e gli uomini si orientavano verso un destino di luce e splendore assicurato dalla renovatio mundi augustea.

Alla condizione dell’ aurea aetas richiama anche il mito solare della Fenice, uccello che muore solo per rinascere più perfetto, che tanta fortuna ebbe tra i successori di Ottaviano. Il Sole, appiccando con i suoi raggi fuoco alla pira funebre, rivolge all’augusto volatile dal piumaggio aureo, roseo, rosso e ceruleo, colori che tingono il cielo all’alba e al tramonto, questo incoraggiamento: mutata melior procede figura, muta di forma e apparirai più bello che mai.

Nessun altro mito si adatta in modo più compiuto al destino della Roma celeste, che Enea ammira nell’Elysium, simboleggiando nelle cicliche rinascite la sua imperitura energia solare di centro spirituale che mira a condurre il mondo a uno stato superiore di giustizia e di pace, al di là di ogni possibile decadenza che possa affliggere la Roma visibile. Ed è proprio in una di queste periodiche crisi, nel III sec. e.v., che tra gli Eneadi perpetuamente rinnovantisi per mandato divino si leva l’invincibile braccio di Lucio Domizio Aureliano, assunto alla porpora in un Impero frammentato e sull’orlo del crollo. Sconfitti i barbari in Occidente e in Oriente, agli occhi del Senato e del popolo romano egli apparve come il Restitutor Orbis, il restauratore del mondo. Agli inizi del 274 e.v. Aureliano poteva così celebrare il suo glorioso e memorabile trionfo sui nemici dell’ imperium restituito, salendo in Campidoglio sul carro appartenuto al re dei Goti e trainato da quattro cervi, che nelle raffigurazioni rupestri camune sono aggiogati al carro del sole. Il 25 dicembre 274 e.v., fissando il natale del Sole Invitto, Aureliano innalzava nel Campo Marzio un grandioso tempio all’astro lucente, ponendo sotto la sua tutela l’Impero di Roma. Il Sol Invictus appariva così la proiezione visibile dell’Uno neoplatonico, il sommo principio divino dal quale promana l’essenza di cui sono composti anche gli Dei, testimoniando l’unitaria radice trascendente che sosteneva e legittimava dall’alto l’Impero di Roma. Scegliendo le pendici del Quirinale, ove già in epoca arcaica sorgeva il pulvinar Solis, per l’erezione del tempio al Sole Invitto, Aureliano dimostra inequivocabilmente di perpetuare un culto romano-italico proprio della vetustissima religio. È Tacito ad usare tale espressione descrivendo la congiuntura in cui tra le fiamme dell’incendio, che distrusse Roma all’epoca di Nerone, perirono le testimonianze più venerande della tradizione ancestrale, salvandosi, però, la vetus aedes Solis. Sol fu annoverato fra i Dii Indigetes, gli Dei “primordiali”, delle origini di Roma, non a caso Lido traduce Sol Indiges con “Hélios ghenàrches”, Sole capostipite.

Aureliano stesso, inoltre, era figlio di una sacerdotessa del Sole, probabilmente liberta della gens Aurelia che a Roma prestava culto gentilizio al Nume lucente. Festo e Paolo Diacono riportano che il nome più antico della gens aveva la forma Auselii, dal sabino Ausel, Sole, per effetto del rotacismo trasformatosi, poi, in Aurelii. Ma era l’intera Italia a esser chiamata dai Greci Ausonia, Ausones i suoi abitanti e Ausonio il mare che la circondava, a ulteriore conferma del prisco carattere nazionale del culto solare.

È questa la ragione per cui Enea, seguendo il vaticinio di cercare l’antica madre, da cui si era mosso per fondare Troia l’etrusco Dardano, reso a Delo dall’oracolo di Apollo, giunto nel Lazio, sbarcato nella costa laurentina, tra tutti gli Dei omaggiò per primo il Sole, costruendo sul posto un piccolo santuario con due altari in posizioni e altezze opposte: uno in alto, orientato dove sorge l’astro e l’altro in basso, ove tramonta. Anche a Laurento l’eroe troiano sacrifica al nume radioso con gli occhi rivolti all’astro nascente insieme a re Latino, nipote di Circe, “ricca figlia del Sole”, abitante sul promontorio che da lei prese il nome, che spesso apparve ai naviganti quale isola per le basse lingue di sabbia che lo univano alla terra ferma. Testimonianza ne è offerta da Esiodo (VII sec.a.e.v.), il quale narrò che Circe sul carro del Sole raggiunse il mar Tirreno e abitò sull’isola che si trova lungo l’Etruria. Sul monte Circeo in epoca romana sarebbe sorto un santuario all’aperto in suo onore e ivi fu trovata una testa in marmo che la ritraeva con un diadema a sette raggi. Enea stesso divinificato fu venerato quale Sol Indiges nel luogo della sua assunzione al cielo presso il fiume Numico nella costa laziale limitrofa a Lavinium, con ciò significando la radice solare della sua progenie destinata a fondare Roma.

Nell’Urbe anche l’area del Circo Massimo era consacrata al Sole e qui Augusto collocò un obelisco, dedicandolo al nume per commemorare la sottomissione dell’Egitto. Nel Circo Massimo il Sole è in stretto rapporto con il fondatore della città, Romolo Quirino, inventore della quadriga e dei giochi, e suo tramite con la sfera del potere regale cui dà conferma incessante la vittoria, ritualizzata nella vittoria ludica. Perché come fu scritto: “Roma non conobbe lo spirito nelle forme mistiche o filosofiche, per le quali essa nutrì una mal celata indifferenza; lo conobbe invece attraverso l’azione e lo testimoniò in istituzioni e tradizioni, dove l’azione – sin nei certamina dei circhi – diveniva un rito simbolico e un sacrificio; e nella gloria dell’Imper”.

SOL

Il Sol Invictus, inoltre, compare come divinità subordinata associata al culto di Mitra, e a volte è confuso col culto di Elios o di Apollo. Il termine Invictus compare anche riferito a Mitra stesso e al Dio Marte nelle iscrizioni private dei dedicanti e dei devoti.

Nel 272 Aureliano sconfisse la principale nemica dell’impero, la Regina Zenobia del Regno di Palmira, grazie all’aiuto provvidenziale della città stato di Emesa, arrivato giusto quando le milizie romane stavano sbandando. L’imperatore raccontò di aver avuto la visione del dio Sole di Emesa, che interveniva per rincuorare le truppe in difficoltà nel corso della battaglia. D’altronde a Costantino apparve la croce in cielo che lo spronava a combattere e prometteva la vittoria.

Si pensa che Aureliano fece in fondo un’abile mossa politica, perchè tanto il culto del Sole era presente in tutte le regioni dell’impero. Ognuno può scegliersi la fede che vuole, oppure pensare che la propaganda all’epoca si facesse così.

Comunque nel 274 Aureliano trasferì a Roma i sacerdoti del dio Sol Invictus e statalizzò il culto solare di Emesa, indossando egli stesso nelle cerimonie una corona a raggi, ed edificando un tempio sulle pendici del Quirinale con un nuovo corpo di sacerdoti: i Pontifices Solis Invicti. A Roma esisteva la religione di stato, ma in modo molto particolare.

Infatti i culti ufficializzati erano pagati dallo stato, ma le altre religioni erano ugualmente rispettate e potevano convivere ufficialmente con queste. La religione cristiana non fu perseguitata come religione, ma perchè i suoi seguaci volevano abolire le religioni di stato romane. Volevano insomma abbattere qualsiasi altra religione, in modo davvero poco democratico.

La festa del Sole diventò il culto più importante in Roma verso la fine del III sec. per l’influenza delle tradizioni orientali.

DIES NATALIS

Aureliano consacrò il tempio del Sol Invictus il 25 dicembre 274, in una festa chiamata Dies Natalis Solis Invicti, “Giorno di nascita del Sole Invitto”, facendo del dio-sole la principale divinità del suo impero ed indossando egli stesso una corona a raggi. La festa del Dies Natalis Solis Invicti divenne via via sempre più importante in quanto si innestava, concludendola, sulla festa romana più antica, i Saturnali.

Il Dies Natalis Solis Invicti veniva incluso nelle festività dei Saturnalia  che  si prolungavano dal 17 al 25 Dicembre e finivano con le Larentalia o festa dei Lari, le divinità tutelari incaricate di proteggere raccolti, strade, città e famiglia. I Saturnalia, una celebrazione religiosa dedicata al dio Saturno, dapprima divinità agraria latina, protettrice della semina e delle sementi, e poi assimilato al dio greco Cronos, sposo di Rhéa, la “Terra”.

HELIOS

Anche l’imperatore Costantino era un seguace del Dio Sole, in qualità di Pontifex Maximus dei romani. Egli, infatti, raffigurò il Sol Invictus sulla sua monetazione ufficiale, con l’iscrizione SOLI INVICTO COMITI, “Al compagno Sole Invitto”, definendo quindi il Dio come un compagno dell’imperatore.

Con un decreto del 7 marzo 321 Costantino stabilì che il primo giorno della settimana (il giorno del Sole, Dies Solis) doveva essere dedicato al riposo:

« Nel venerabile giorno del Sole, si riposino i magistrati e gli abitanti delle città, e si lascino chiusi tutti i negozi. Nelle campagne, però, la gente sia libera legalmente di continuare il proprio lavoro, perché spesso capita che non si possa rimandare la mietitura del grano o la semina delle vigne; sia così, per timore che negando il momento giusto per tali lavori, vada perduto il momento opportuno, stabilito dal cielo. »

La celebrazione del Sole Invitto proprio il 25 dicembre è testimoniata nel Cronografo del 354 insieme alla testimonianza del Natale cristiano. La prima testimonianza della celebrazione del Natale cristiano successiva al Cronografo del 354 risale al 380 grazie ai sermoni di san Gregorio di Nissa.

La festa del Natale di Cristo, infatti, non è riportato nei più antichi calendari delle festività cristiane e anche in seguito veniva celebrato in date estremamente differenti tra loro. Durante il regno di Licinio la celebrazione si svolse il 19 dicembre, data forse più prossima al solstizio astronomico nel calendario allora in vigore.

Nel 330 Costantino, sebbene, contrariamente a ciò che si racconta, mai convertito al cristianesimo, ufficializzò per la prima volta la festa della natività di Gesù, che con un decreto fu fatta coincidere con la festa pagana della nascita di Sol Invictus. Il “Natale Invitto” divenne così il “Natale” Cristiano.

Nel 337 papa Giulio I ufficializzò la data del Natale per conto della Chiesa cattolica, come riferito da Giovanni Crisostomo nel 390:

« In questo giorno, 25 dicembre, anche la natività di Cristo fu definitivamente fissata in Roma. »

SOLE – MITRA

A Roma Mitra fu soprattutto il Dio dei soldati, seppure abbracciata da imperatori, agricoltori, burocrati, mercanti e schiavi, con regole di comportamento molto precise, che richiedevano la temperanza, l’autocontrollo e la compassione anche nella vittoria. Tanto che Tertulliano rimprovera ai suoi fratelli cristiani il loro comportamento inadeguato dicendo:

MITRA

“Se non vi vergognate da voi, miei commilitoni di Cristo, non sarà Cristo a condannarvi, ma i soldati di Mitra”

Il Mitraismo, come il Cristianesimo, offriva la salvezza ai suoi seguaci, perchè Mitra era nato nel mondo per salvare l’umanità dal male. Aureliano, originario della Dacia Ripensis e figlio di una sacerdotessa del Sole, fece del Dies Natalis Solis Invictus il centro della liturgia imperiale, complice il diffondersi negli ambienti militari del mithraismo, dove Mithra era considerato il Figlio del dio supremo Sol: Figlio del Sole e Sole lui stesso, nato da una roccia presso un albero sacro e con la torcia in mano, simbolo della Luce e del Fuoco che spandeva sul cosmo.

Il mito narra che alcuni pastori presenti all’evento soprannaturale gli avevano offerto primizie dei greggi e dei raccolti. Non poche le analogie con la nascita del Cristo in una “grotta” illuminata da una stella mentre i pastori lo adoravano. Mitra è nato da una vergine in una grotta il 25 dicembre, è adorato la Domenica, il giorno del sole. Era un dio-salvatore, come Gesù morto e risorto per diventare un Dio messaggero, intermediario tra l’uomo e il Dio della luce, il leader della giustizia contro le forze oscure del male.

SOLE – ELIOS

“Prima di cominciare l’anno” scriveva l’Imperatore Giuliano nel discorso su Elio Re “noi diamo in onore di Elio giochi magnifici, solennità consacrate a Elio Invincibile. ..Ah! si degnino gli dèi sovrani di permettermi di celebrare sovente questi misteri, e che il sovrano stesso dell’universo, Elio il primo, mi accordi questo favore!

Sorto da tutta l’eternità intorno all’essenza feconda del Bene, mediatore fra gli dèi intelligenti, essi stessi mediatori, Egli ne assicura pienamente la continuità, la bellezza senza limiti, l’inesauribile fecondità, l’intelligenza perfetta, e li dota abbondantemente di tutti i beni atemporali”.

IL SOLE INVITTO E IL CRISTIANESIMO

A Roma esistevano diversi natali a cominciare dal Natale di Roma, una solennità pubblica che coincideva con l’antica festa dei Parilia e a proseguire col natale degli imperatori e pure quello di alcune divinità, come il Natalis Minervae. Il natale più famoso era però quello del Sole Invitto, il Dies Natalis Solis Invicti, introdotto da Eliogabalo.

Sembra evidente che i cristiani abbiano “ribattezzato” la festa pagana del Sole Invitto come “Festa della nascita di Cristo”, spostandone la data dal 21 al 25 dicembre, per soppiantare l’altra, sempre molto diffusa tra la popolazione.

MITRA

Ma all’epoca, sia la nascita da una madre vergine con procreazione miracolosa, sia la resurrezione il terzo giorno successivo alla morte erano i segni distintivi della divinità. Nelle civiltà del Mediterraneo orientale del I sec. d.c. questi prodigi appartenevano numi pagani agrari e solari. Il mito di base è dramma del giovane dio che muore nel pieno della sua vita per rigenerare la natura con il suo sangue, ma rinasce con il grano nuovo della primavera per trasformarsi nel “Signore dei vivi e dei morti” e nel “Salvatore dell’Umanità”. In Egitto questo dio è Osiride, in Persia è Mitra, in Asia Minore è Attis, in Grecia è Dioniso.

Ma all’origine è il figlio-vegetazione della Grande Madre Natura che muore al solstizio d’inverno, per resuscitare all’equinozio di primavera, quando i campi reinverdiscono. Successivamente il Dio muore e rinasce ogni anno al solstizio d’inverno.

Nel 376 venne soppresso il culto di Mitra a Roma per ordine del prefetto. Con l’editto dell’imperatore Teodosio del 392, che diede inizio alle persecuzioni contro i riti pagani, si conclusero in tutto l’Impero le ultime celebrazioni in onore della dea Iside madre di Horus; e con i decreti dell’Imperatore Giustiniano del 536 fu chiuso l’ultimo tempio in onore di Iside in Egitto, dando via libera al Natale cristiano in tutto l’Impero Romano.

Prima di tale canonizzazione, durante il cristianesimo delle origini, la nascita di Cristo aveva date diverse:

per S. Cipriano cadeva il 28 marzo,

per S. Ippolito il 23 aprile,

secondo Clemente Alessandrino il 20 maggio, o il 10 gennaio, o il 6 gennaio; quest’ultima data successivamente si affermò in Oriente, e da lì venne utilizzata a Roma fino al cambiamento deciso da Costantino e poi confermato da Papa Giulio I.

Altre Chiese cristiane, come quella ortodossa, copta, armena, continuano invece a celebrarlo il 6 gennaio, dove l’Epifania rappresenta l’Annunciazione della nascita di Cristo.

La religione del Sol Invictus restò in auge fino al celebre editto di Tessalonica di Teodosio I del 27 febbraio 380, in cui l’imperatore stabiliva che l’unica religione di stato era il Cristianesimo di Nicea, bandendo di fatto ogni altro culto.

COSTANTINO ED IL SOL INVICTUS

Il 3 novembre 383 il Dies Solis, che era chiamato anche Dies Dominicus, giorno del Signore, in accordo con l’uso cristiano attestato da quasi tre secoli (cfr. Apocalisse 1, 16), fu dichiarato giorno di riposo obbligatorio per i tribunali, per gli affari e la riscossione dei debiti, comandando che fosse considerato sacrilego chi non ottemperava all’editto del Codice Teodosiano:

«ad Principium praefectum praetorio. Solis die, quem dominicum rite dixere maiores, omnium omnino litium et negotiorum quiescat intentio; debitum publicum privatumque nullus efflagitet; ne aput ipsos quidem arbitros vel e iudiciis flagitatos vel sponte delectos ulla sit agnitio iurgiorum. Et non modo notabilis, verum etiam sacrilegus iudicetur, qui a sanctae religionis instinctu rituve deflexerit. Proposita III non. nov. Aquileiae Honorio n. p. et Evodio conss.»

L’ultima iscrizione riferita al Sol Invictus risale al 387 d.c. e ci sono ancora tanti devoti nel V sec. d.c. che Agostino ritenne necessario predicare alacremente contro di loro.

L’apologeta cristiano Epifanio di Salamina narra che in alcune città d’Arabia e d’Egitto i pagani celebravano una festa dedicata al trionfo della luce sulle tenebre, cioè la nascita del dio Aîon, generato dalla vergine Kore,  La testimonianza di Epifanio è confermata anche da Cosma di Gerusalemme, che ancora nel sec. VIII d.c. cita la medesima celebrazione nella notte tra il 24 e il 25 dicembre.

La confusione fra i culti pagani e quello cristiano durò diversi secoli, anche perché l’editto di Teodosio, che proibiva i culti diversi dal cristianesimo, pena l’alienazione dei beni e pure la morte, non determinò la conversione dei pagani. Ancora ottanta anni dopo, nel 460, il papa Leone I sconsolato scriveva:

« È così tanto stimata questa religione del Sole che alcuni cristiani, prima di entrare nella Basilica di San Pietro in Vaticano, dopo aver salito la scalinata, si volgono verso il Sole e piegando la testa si inchinano in onore dell’astro fulgente. Siamo angosciati e ci addoloriamo molto per questo fatto che viene ripetuto per mentalità pagana. I cristiani devono astenersi da ogni apparenza di ossequio a questo culto degli dei. »

(Papa Leone I, 7° sermone tenuto nel Natale del 460 – XXVII-4)

Oggi le ricerche e gli studi topografici dell’Università di Roma, condotti dal prof. Jaia, hanno restituito alla luce nei pressi di Pratica di Mare, l’antica Lavinium, il tempio del Sol Indiges. Possa questo rinvenimento essere foriero dell’alba di un nuovo giorno, dipanando le tenebre dell’imperversante ateismo e consentendo al popolo italiano di ritrovare nelle sue radici il culto avito che renda di nuovo la nostra terra Saturnia. Questo l’augurio. Quod bonum faustumque sit.

http://lanzichenecchi.eu/essere/52-solstizio-d-inverno.html

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CHE COS’È IL NATALE?

Autore: Julius Evola

Vi sono riti e feste, sussistenti ormai solo per consuetudine nel mondo moderno, che si possono paragonare a quei grandi massi che il movimento delle morene di antichi ghiacciai ha trasportato dalla vastità del mondo delle vette giù, fin verso le pianure.

Tali sono, ad esempio, le ricorrenze che come Natale ed anno nuovo rivestono oggi prevalentemente il carattere di una festa familiare borghese, mentre esse sono ritrovabili già nella preistoria e in molti popoli con un ben diverso sfondo, compenetrate da un significato cosmico e universale. Di solito, passa inosservato il fatto che la data del Natale non è convenzionale e dovuto solo ad una particolare tradizione religiosa, ma è determinata da una situazione astronomica precisa: è la data del solstizio d’inverno.

E proprio il significato che nelle origini ebbe questo solstizio andò a definire, attraverso un adeguato simbolismo, la festa corrispondente. Si tratta, tuttavia, di un significato che ebbe forte rilievo soprattutto in quei progenitori delle razze indoeuropee, la cui patria originaria si trovava nelle regioni settentrionali e nei quali, in ogni caso, non si era cancellato il ricordo delle ultime fasi del periodo glaciale. In una natura minacciata del gelo eterno l’esperienza del corso della luce del sole nell’anno doveva avere un’importanza particolare, e proprio il punto del solstizio d’inverno rivestiva un significato drammatico che lo distinguerà da tutti gli altri punti del corso annuale del sole. Infatti, nel solstizio d’inverno, il sole, essendo giunto nel suo punto più basso dell’eclittica, la luce sembra spegnersi, abbandonare le terre, scendere nell’abisso, mentre ecco che invece essa di nuovo si riprende, si rialza e risplende, quasi come in una rinascita. Un tale punto valse, perciò, nei primordi, come quello della nascita o della rinascita di una divinità solare.

Nel simbolismo primordiale il segno del sole come “Vita”, “Luce delle Terre”, è anche il segno dell’Uomo. E come nel suo corso annuale il sole muore e rinasce, così anche l’Uomo ha il suo “anno”, muore e risorge. Questo stesso significato fu suggerito, nelle origini, dal solstizio d’inverno, a conferirgli il carattere di un “mistero”. In esso la forza solare discende nella “Terra”, nelle “Acque”, nel “Monte” (ciò in cui, nel punto più basso del suo corso, il sole sembra immergersi), per ritrovare nuova vita. Nel suo rialzarsi, il suo segno si confonde con quello de “l’Albero” che sorge (“l’Albero della Vita” la cui radice è nell’abisso), sia “dell’Uomo cosmico” con le “braccia alzate”, simbolo di resurrezione. Con ciò prende anche inizio un nuovo ciclo, “l’anno nuovo”, la “nuova luce”. Per questo, la data in questione sembra aver coinciso anche con quella dell’inizio dell’anno nuovo (del capodanno). È da notare che anche Roma antica conobbe un “natale solare”: proprio nella stessa data, ripresa successivamente dal cristianesimo, del 24-25 dicembre essa celebrò il Natalis Invicti, o Natalis Solis Invicti (natale del Sole invincibile).

In ciò si fece valere l’influenza dell’antica tradizione iranica, da tramite avendo fatto il mithracismo, la religione cara ai legionari romani, che per un certo periodo si disputò col cristianesimo il dominio spirituale dell’Occidente. E qui si hanno interessanti implicazioni, estendendosi fino ad una concezione mistica della vittoria e dell’imperium.

Come invincibile vale il sole, per il suo ricorrente trionfare sulle tenebre. E tale invincibilità, nell’antico Iran, fu trasferita ad una forza dall’alto, al cosiddetto “hvareno”. Proprio al sole e ad altre entità celesti, questo “hvareno” scenderebbe sui sovrani e sui capi, rendendoli parimenti invincibili e facendo si che i loro soggetti in essi vedessero uomini che erano più che semplici mortali. Ed anche questa particolare concezione prese piede nella Roma imperiale, tanto che sulle sue monete, spesso ci si riferisce al “sole invincibile”, e che gli attributi della forza mistica di vittoria sopra accennata si confusero non di rado con quelli dell’Imperatore.

Tornando al “natale solare” delle origini, si potrebbero rilevare particolari corrispondenze in ciò che ne è sopravvissuto come vestigia, nelle consuetudini della festa moderna. Fra l’altro un’eco offuscata è lo stesso uso popolare di accendere sul tradizionale albero delle luci nella notte di Natale. L’albero, come abbiamo visto, valeva infatti come un simbolodella resurrezione della Luce, di là della minaccia delle notte. Anche i doni che il Natale porta ai bambini costituiscono un’eco remota, un residuo morenico: l’idea primordiale era il dono di luce e di vita che il Sole nuovo, Il “Figlio”, dà agli uomini. Dono da intendersi sia in senso materiale che in senso spirituale.

[…]

Avendo ricordato tutto ciò, sarà bene rilevare che batterebbe una strada sbagliata chi volesse veder qui una interpretazione degradante tale da trascurare il significato religioso e spirituale che ha il Natale da noi conosciuto, riportando all’eredità di una religione naturalistica e per ciò primitiva e superstiziosa. […] Una “religione naturalistica” vera e propria non è mai esistita se non nella incomprensione e nella fantasia di una certa scuola di storia delle religioni[…] oppure è esistita in qualche tribù di selvaggi fra i più primitivi. L’uomo delle origini di una certa levatura non adorò mai i fenomeni e le forze della natura semplicemente come tali, egli li adorò solo in quanto e per quel tanto che essi valevano per lui come delle manifestazioni del sacro, del divino in genere. […] la natura per lui non era mai “naturale”. […] Essa presentava per lui i caratteri di un “simbolo sensibile del sovrasensibile”. […] Un mondo di una primordiale grandezza, non chiuso in una particolare credenza, che doveva offuscarsi quando quel che vi corrispose assunse un carattere puramente soggettivo e privato, sussistendo soltanto sotto le specie di feste convenute del calendario borghese che valgono soprattutto perché si t ratta di giorni in cui si è dispensati dal lavorare e che al massimo offrono occasioni di socievolezza e di divertimento nella “civiltà dei consumi”.

Brani tratti dall’articolo Natale solare ed Anno nuovo apparso sul quotidiano Roma del 5 gennaio 1972.

http://www.centrostudilaruna.it/evolanatale.html

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I DONI NATALIZI, LA TOMBOLA E LE STRENNE

Autore: Alfredo Cattabiani

Con l’avvicinarsi delle feste natalizie si avverte per le vie un’at­mosfera elettrizzata, un desiderio di vacanza, di giochi, di incontri, di pranzi e soprattutto di regali. Qualche moralizzatore l’attribuisce alla smania di consumi che sarebbe indotta artificialmente da chi ha interesse a rastrellare la provvidenziale tredicesima. C’è invece chi ne critica l’atteggiamento poco consono alla festa cristiana, se non addirittura neopagano. In effetti, questa atmosfera non si ispira certo al Natale cristiano se non per una coincidenza di date. È dovuta invece al radicamento nella psiche di archetipi che originano comportamenti costanti in occa­sione delle feste che chiudono un ciclo e ne aprono un altro segnando la fine di un anno e l’avvento di uno nuovo: comportamenti che esprimono la volontà conscia o inconscia di un totale rinnovamento.

La volontà di rigenerazione si è espressa nel mito dell’eterno ritorno, presente in quasi tutte le tradizioni, che narra della distruzione periodica dell’universo e dell’umanità cui seguirà un nuovo universo e una nuova umanità. Questo ciclo potrebbe essere paragonato a un Grande Anno rispecchiato e simboleggiato da quello solare. Come il Grande Anno comincia con una creazione, continua con un’esistenza che è la storia del suo progressivo degenerare, e si conclude con un ritorno al caos, così l’anno, solare nasce e si sviluppa nel corso dei mesi impoverendosi giorno dopo giorno fino alla sua morte nel caos, in un generale “rimescolamento”: per poi nascere nuovamente. Nei periodi di passaggio da un anno all’altro, come già si è spiegato, si sono sempre svolti riti e cerimonie di purificazione e di espulsione di demoni con lo scopo di sopprimere il passato con i suoi drammi, mali e peccati. E per mimare il caos della fine, la fusione di tutte le forme nella vasta unità indifferenziata, si manifestano comportamenti orgiastici e intermezzi carnascialeschi fino al rovesciamento dell’ordine normale. Nella Roma antica questo periodo cominciava con la festa dei Saturnali sulla cui allegra «con-fusione» regnava il mitico dio dell’età dell’oro, Saturno.

I Saturnali venivano celebrati lietamente per una settimana, fra il 17 e il 20 dicembre, e, in epoca imperiale, continuavano fino al 24 conglobando altre feste. Durante quei giorni, come in ogni periodo di caos rituale, la gente si scambiava i ruoli: ad esempio i padroni servivano gli schiavi. Inoltre si permetteva il gioco d’azzardo che, proibito durante il resto dell’anno, era originariamente un atto rituale in stretta connessione con la funzione rinnovatrice di Saturno il quale distribuiva le sorti agli uomini per il nuovo anno; sicché la fortuna del giocatore non era legata al caso ma al volere della divinità. Per questo motivo durante i Saturnali si giocava con la tavoletta, una specie di dama su cui si muovevano minuscole quadriglie d’avorio a imitazione degli spettacoli del circo; oppure ai calcoli, trentadue pedine d’avorio o vetro o metallo, distinte per il colore in due gruppi e usate per un gioco simile agli scacchi, in cui si doveva evitare che la pedina restasse circondata e quindi, catturata. Il ricordo sbiadito di quei giochi è l’attuale tombola che si usa nel giorno di Natale. Anche le statuette d’argilla che ci si scambiava come doni durante la festa erano collegate al gioco divino: simboleggiavano gli uomini che vi erano raffigurati, mentre le candele di cera, anch’esse dorate, alludevano alla luce che miticamente aveva portato Saturno con l’età dell’oro.

Oggi a Natale sono scomparsi i comportamenti carnascialeschi dei Saturnali mentre è più viva che mai l’usanza delle strenne che i Romani offrivano al primo dell’anno, in un periodo collegato al rinnovamento annuale. Nell’Antichità le strenne erano costituite da rametti di una pianta propizia che si staccavano da un boschetto sulla via Sacra, consacrato a una dea di origine sabina, Strenia, apportatrice di fortuna e felicità. Secondo Varrone «quasi fin dalle prime origini della città di Roma si adottò l’uso delle strenne istituito da Tito Tazio, il quale per primo prese come buon auspicio per l’anno nuovo il ramoscello di una pianta propizia [arbor felix] dal bosco della dea Strenia». Poi, poco a poco, si chiamarono strenae anche doni dì vario genere e addirittura monete.

La strena è dunque l’antenata, per così dire, dei regali di Natale, detti appunto strenne, e anche delle mance natalizie. Queste ultime così furono cristianamente interpretate in epoca barocca: «Suol darsi la Mancia in queste santissime Feste di Natale in memoria della gran liberalità del N. Sig. Dio, il quale diede se stesso a tutto il mondo, e in memoria di quella gran Mancia della Pace, che dagli Angeli nella Natività di esso fu data e annunciata in terra a tutti gli uomini e per caparra ancora del preziosissimo sangue ch’ egli era per cominciare a spargere nel giorno della Sua Santissima Circoncisione, il quale doveva poi versare affatto nella sua Passione sul duro legno della Croce» (Alberto de Gubernatis, Storia Comparata degli usi natalizi in Italia e presso gli altri popoli indo-europei).

Brano tratto da Alfredo Cattabiani, Lunario.

http://www.centrostudilaruna.it/i-doni-natalizi-la-tombola-e-le-strenne.html

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