IL LAVORO E IL PRECARIATO
Il diritto al lavoro è sancito all’art.4 della Costituzione. È vero che non è sancito il diritto al lavoro a tempo indeterminato ma è altrettanto vero che è nella natura dell’uomo tendere alla perfezione e non accontentarsi di ciò che “passa il convento”.
Prima di tutto bisogna capire cosa si intende per giovani. Le enormi difficoltà sul mercato del lavoro infatti oggi vengono subite anche, se non soprattutto, da persone che hanno superato i 30 anni ma non ancora raggiunto i 40, ogni volta che si sente parlare di politiche a tutela dell’occupazione giovanile si parla invece di una fascia d’età che raggiunge massimo i 30, forse è ora che si capisca che se si vuole provare a risolvere veramente la situazione quella fascia va allargata.
Monti chiede hai giovani di essere flessibili e di non aspirare per forza al posto fisso. Da sempre i giovani si sono dimostrati disponibili ad accettare sfide e cambiamenti, credo nessuno si lamenterebbe se gli fosse proposto nel corso della sua vita di aggiornarsi, migliorare professionalmente, cambiare anche tipo di lavoro, ecc. Il problema reale è che terminato un rapporto di lavoro, ad oggi, non si sa se e quando se ne inizierà uno nuovo, con le relative difficoltà ad affrontare serenamente la vita di tutti i giorni. Inoltre la conseguente precarietà, perché di questo si tratta ed è meglio chiamare le cose con il proprio nome se si vuole affrontare la tematica senza ipocrisie, porta con sé una serie di questioni che nessuno sembra aver la volontà di affrontare e risolvere.
Programmare il futuro, anche prossimo, diventa sostanzialmente impossibile, si è costretti a vivere alla giornata, non si può sperare che qualcuno conceda in locazione un appartamento senza le dovute garanzie sui futuri pagamenti degli affitti, per non parlare poi di un mutuo per acquistare casa o anche di un semplice finanziamento per poterla arredare o sostituire un auto quando dovesse essercene bisogno; sulla base di questi presupposti come pensare di potersi formare una famiglia?
E un domani quando arriverà l’età della pensione? O meglio, quando mai si sarà in grado di raggiungere i 41 o 42 anni di anzianità contributiva attualmente previsti se tra un rapporto di lavoro e l’altro ci sono lunghi periodi di disoccupazione per cui nessuno versa i contributi? Con quale importo si andrà in pensione visto che non essendo titolari di un trattamento di fine rapporto a lungo termine non si è in grado di aderire ad una forma previdenziale integrativa e, per gli stessi motivi, è difficile pensare di impegnarsi a versare periodicamente un contributo ad una forma previdenziale individuale o privata, chi coprirà i versamenti nei periodi durante i quali non si percepirà alcuno stipendio?
Anche se appare cinico non va poi dimenticato che nei periodi di disoccupazione i lavoratori precari diventano spesso un costo sociale a carico della collettività. È infatti naturale che nei periodi di stacco tra un contratto e l’altro, se in possesso dei requisiti, chiedano il relativo sussidio all’INPS.
Anche se il solo modo per risolvere definitivamente la situazione è una reale crescita economica che porti alla disponibilità di maggiori posti di lavoro, nel mentre ci sono delle cose che potrebbero essere fatte per migliorare, ad esempio:
– Maggiore flessibilità al mercato del credito, imponendo al sistema bancario di destinare una parte dei fondi, che attualmente è fermo alla BCE a produrre interessi e non ricchezza, a chi non ha un lavoro fisso, garantire l’eventuale possibilità di rinegoziare rate e durata del prestito o di sospenderne momentaneamente il pagamento nel caso venga meno il lavoro. Magari lo Stato potrebbe farsi garante di questi debiti invece che di quelli delle banche. Ovviamente il tutto senza aggravio di costi per chi il finanziamento lo chiede, al contrario di quello che avviene oggi con le assicurazione sui prestiti.
Ovviamente quanto ricevuto in prestito va restituito con i relativi interessi ma se da una parte si deve accettare la flessibilità sul lavoro dall’altra si chiede la flessibilità del sistema bancario. Sembra inoltre superfluo specificare che ciò potrebbe anche aiutare a rimettere in moto i consumi con relativi benefici per tutto il sistema economico.
– Prevedere stipendi più alti per chi accetta un posto precario e alzare il relativo carico contributivo ma solamente in capo all’azienda. Permetterebbe di raggiungere più risultati. Da primo si scoraggiano le aziende che usano questi contratti per allungare di anni i periodi di prova dei lavoratori lasciandosi sempre aperta una porta nel momento in cui se ne volessero liberare; si permette al lavoratore di accantonare una parte di quanto percepito per far fronte a eventuali futuri periodi di disoccupazione e con il versamento di maggiori contributi si coprono una parte di quei costi sociali descritti prima.
– Quando si è lavorato per la maggior parte dell’anno con queste tipologie contrattuali, pagando più contributi dei normali lavoratori come prima proposto, riconoscere l’accredito dei diritti e dei contributi validi al fine della maturazione della pensione per l’anno intero, come attualmente avviene per talune tipologie di lavoratori dello spettacolo che, vista la particolare natura del loro lavoro, difficilmente lavorano per un intero anno.
Farei anche notare al nostro caro Ministro Cancellieri che il posto di lavoro lo si cerca spesso vicino a casa di mamma e papà non perché troppo viziati o cose simili, ma semplicemente perché, per tutto quanto detto sopra, non c’è alternativa a restare a vivere in casa e la famiglia è ormai il solo vero ammortizzatore sociale in grado di sostenere i giovani nel momento in cui non hanno nessun altro tipo di entrata economica se non il sostegno dei genitori.
L’ART. 18 STATUTO DEI LAVORATORI
Probabilmente va rivisto, considerando che ha 40 anni ed è stato scritto in un momento in cui il tessuto economico del nostro paese era profondamente diverso da quello attuale. Sicuramente però non va abolito. Trovo profondamente ingiusta la disparità di tutele attualmente previste tra un lavoratore dipendente di un’azienda con 14 dipendenti e un di uno dipendente di un azienda con 16, probabilmente l’ideale sarebbe prevedere un sistema graduale di tutele che crescano proporzionalmente al crescere del numero dei dipendenti eliminando quel salto enorme attualmente previsto. Il tutto ovviamente fatti salvi i diritti acquisiti. Mai infatti ho sentito parlare del fatto che, per una larga parte dei lavoratori italiani, tutte le tutele che tanto sembrano spaventare gli industriali di fatto non esistono. I dipendenti di aziende con meno di 15 dipendenti, la maggior parte delle aziende del nostro tessuto economico locale, in caso di licenziamento ingiustificato il massimo a cui possono accedere è un risarcimento pari a 6 mensilità. Ovviamente il tutto dopo un processo destinato a durare anni, anche se molti meno di quanti ne servano per la risoluzione di una causa civile, e nel mentre una volta terminata l’indennità di disoccupazione ed eventuale cassa integrazione come vive un lavoratore? Abbreviare ulteriormente i tempi del processo del lavoro potrebbe essere vista come una maggiore tutela nei confronti dei lavoratori senza andare ad incidere sulla rigidità del mercato del lavoro, magari affiancando un inasprimento dei risarcimenti economici dovuti per quei licenziamenti che risulteranno essere veramente ingiustificati o, peggio, discriminatori.
Quello che mi spaventa però è sentir parlare di flessibilità in uscita, il che non mi sembra abbia a che fare con le tutele dell’art.18 che prevede le conseguenze di un licenziamento ingiustificato, mi sembra più probabile che ci sia un tentativo di ampliare le motivazioni per cui è possibile licenziare. Certo, a maggior tutela per tutti, per alcuni contratti forse sarebbe meglio allungare un po’ i periodi di prova dei lavoratori per poterne capire meglio capacità e soprattutto carattere e compatibilità con i colleghi prima che diventino stabili, ma anche in questo caso nulla centra con lo Statuto dei Lavoratori.
E non si venga a parlare di licenziamenti per crisi aziendali, il licenziamento per giustificato motivo oggettivo è già previsto nel nostro sistema giuridico, anche se in taluni casi con particolari procedure e limitazioni che sicuramente possono essere riviste e aggiornate ma anche ponendo che i licenziamenti siano veramente possibili solo per crisi aziendale chi ha il potere/dovere di vigilare sull’effettiva sussistenza di tale crisi, e in base a quali criteri, per evitare che la stessa sia usata come scusa per licenziamenti dovuti invece ad altri motivi?
Mi pare che sull’argomento si stia alzando un po’ di fumo appositamente e che nessuno fin’ora abbia parlato in termini pratici e concreti di quelle che sono le intenzioni del Governo, difficile intavolare una discussione seria o fare proposte sul nulla.
MERCATO DEL LAVORO
Ha suscitato scalpore qualche tempo fa l’inchiesta dalla quale è emerso che la maggior parte delle persone ormai cerca un’occupazione attraverso le conoscenze. Ma chi si è scandalizzato ha mai provato a cercare lavoro al giorno d’oggi?
Tolte le amicizie, le strade percorribili sono sostanzialmente 4, annunci economici su siti internet, dove, come tutti sanno, si può trovare tutto e il contrario di tutto, annunci sui giornali, dove nessuno vigila sulla serietà delle inserzioni e sono spesso così costosi per le aziende che le abbreviano in modo tale da risultare tutt’altro che di facile comprensione, rivolgersi ai Centri per l’impiego che per i lavoratori funzionano in modo ottimale ma ai quali poche aziende si rivolgono se non in caso di assunzione di categorie di lavoratori protetti come disabili e lavoratori in mobilità, e da ultimo le agenzie di somministrazione (ex agenzie interinali). Queste ultime hanno profondamente destabilizzato il mercato del lavoro per diversi motivi: sono profumatamente pagate dalle aziende per effettuare il lavoro di ricerca e selezione del personale, di chi potrebbero fare gli interessi? Inoltre i dipendenti di agenzie interinali possono sottoscrivere una serie di contratti di lavoro a tempo determinato per 42 mesi consecutivi e non 36 come se fossero dipendenti direttamente dell’azienda presso la quale di fatto lavorano, il tutto senza che tra un contratto e l’altro ci siano periodi di stacco e senza che da ciò si dia poi origine ad un contratto di lavoro stabile, si va quindi ad aumentare ulteriormente la precarietà. A tutto ciò si aggiunga che, per l’assunzione a termine di un dipendente, basta una generica motivazione di carattere organizzativo.
Anche in questo ambito ci sono dei provvedimenti che possono essere adottati per migliorare la situazione. Innanzitutto bisognerebbe reintrodurre l’obbligo di motivare il ricorso al lavoro a tempo determinato con reali necessità di tipo temporaneo che devono essere inserite nel contratto, andrebbe poi introdotto l’obbligo per le aziende di comunicare al Centro per l’Impiego, i cui poteri andrebbero implementati, la necessità di assumere personale con le relative qualifiche e competenze richieste nonché mansioni e retribuzioni offerte. Questo darebbe modo di agevolare l’incontro tra domanda e offerta, chiedendo a chiunque sia in cerca di occupazione di inserire il proprio curriculum nella banca dati del CpI e incrociando i dati , darebbe anche modo agli organi competenti di vigilare sull’effettiva sussistenza delle motivazioni per cui le aziende ricorrono al lavoro a termine. Sostanzialmente si tratta di riaffermare la competenza del settore pubblico sul privato in una materia così delicata e fondamentale, dando maggiori compiti, competenze e poteri ad un organismo pubblico che, almeno per quanto riguarda la nostra realtà locale, funziona egregiamente.
Raffaella