PROFUGHI, RIFUGIATI O CLANDESTINI?

In Veneto otto migranti su dieci non hanno diritto all’asilo, si tratta di quelli che oggi è in voga chiamare “migranti economici”, destinati con buona probabilità alla clandestinità e che andrebbero espulsi.

Giova fare un minimo di chiarezza in merito alle diverse forme di protezione riconosciute ad una parte degli immigrati che giungono in Italia e per i quali si usa la generica (e in molti casi erronea) definizione di “profugo”.

Ci sono infatti 3 forme di protezione, tra loro differenti:

– la protezione di rifugiato;

– la protezione umanitaria;

– la protezione sussidiaria.

La prima è una figura riconosciuta e normata da un importante accordo internazionale, la Convenzione di Ginevra, mentre le altre due non sono regolate da convenzioni internazionali ma imposte ai propri Stati membri dall’Unione Europea.

A chi non viene riconosciuta alcuna forma delle suddette protezioni è un clandestino tout court (a parte il non trascurabile dettaglio che in Italia, i richiedenti asilo clandestinamente ci arrivano…).

Da notare che se l’Europa restringesse il campo delle protezioni accordate ai soli rifugiati, secondo quanto previsto dalla Convenzione di Ginevra e senza violare quindi alcuna convenzione internazionale, taglierebbe in maniera significativa il numero di soggetti beneficiari.

Secondo la Convenzione di Ginevra rifugiato è “chiunque, nel timore fondato di essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza ad un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato”.

L’iter per ottenere lo status di rifugiato, oltre ad essere lungo e farraginoso, sembra creare non pochi problemi di carattere giuridico e organizzativo.

Ad oggi, dai dati elaborati dall’attività della Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale, emerge che solamente un immigrato su venti riesce ad ottenere lo status di rifugiato.

In Veneto il 60% delle pratiche viene respinto perché i profughi non posseggono gli elementi per il diritto d’asilo secondo la convenzione di Ginevra e nemmeno è applicabile la “protezione sussidiaria” (il cittadino di un paese terzo o apolide che non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel paese di origine o di domicilio) per chi scappa da un Paese in guerra, che si risolve in lasciapassare per motivi umanitari di due anni (se sussistono però seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano), un altro 20%. Non a caso, per la sua più vaga definizione e quindi maggior discrezionalità, quella umanitaria è quella tra le forme di protezione che vede il maggior numero di esiti positivi. Va detto che solitamente beneficiano del lasciapassare per motivi umanitari donne in gravidanza, minori, malati e disabili.

Si individuano subito due problemi: la mole di richieste da esaminare e il destino di coloro che non vengono accolti come rifugiati.

– In Veneto esistono al momento due commissioni esaminatrici: una a Padova, dove vengono esaminate le domande di Venezia e Rovigo, e l’altra a Verona, dove si prendono in carico le richieste di Treviso, Vicenza e Belluno.

Le pratiche in arretrato, proprio stando ai dati forniti dalla Commissione di Verona, richiederanno tutto il 2016 per essere smaltite e gli immigrati in attesa che la loro domanda venga elaborata, resteranno ovviamente in Veneto e a loro si aggiungeranno quelle dei nuovi arrivi, dando vita ad un processo che non sembra avere fine.

– Il secondo problema si pone invece per le domande respinte. In Italia, se lo status di rifugiato non viene condonato, scatta il verdetto e l’immigrato è invitato a lasciare il territorio italiano entro 15 giorni, tranne nel caso in cui faccia ricorso, dove l’iter prevede che gli immigrati possano presentare ricorso in tribunale entro 30 giorni dalla decisione della Commissione e attendere in Italia la sentenza definitiva.

Nel 65% dei casi i dinieghi vengono impugnati e nel frattempo la persona va mantenuta e le spese legali pagate con soldi pubblici. Nel nostro Paese nel 2014, su 13.122 dinieghi sono stati presentati 8.420 ricorsi: i magistrati ribaltano il parere delle commissioni sette volte su dieci.

Inoltre, davanti a un secondo rifiuto gli immigrati, possono restare e fare ricorso in appello.

Da qui emerge un chiaro segnale di conflitto tra gli organismi dello Stato e cioè tra le commissioni che respingono e i tribunali che decidono l’opposto.

In un caso o nell’altro, non avendo gli immigrati alcuna intenzione di tornare nel Paese d’origine, si trattengono in Italia, chi in attesa della decisione del tribunale e chi illegalmente, entrando quindi nella clandestinità.

Da qui nasce una terza problematica, quella relativa alle quote di ripartizione. Gli accordi tra i Paesi europei in merito alla “spartizione” degli immigrati, vengono meno.

L’Europa infatti nega l’accoglienza a tutti coloro che non soddisfano i criteri della Convenzione di Ginevra e di conseguenza, quindi, i non rifugiati restano in Italia. Clandestinamente.

Il rischio è che l’Italia venga esclusa dal meccanismo della ripartizione, qualora non sia in grado di distinguere i rifugiati dai clandestini.

C’è poi il problema dei fotosegnalamenti, in quanto sembra che un immigrato su tre si rifiuti di sottoporsi alle pratiche di riconoscimento e ciò che sconcerta è che possa farlo.

A denunciare la cosa è Daniela Stradiotto, direttore del servizio di Polizia scientifica.

I dati forniti dalla Dott.ssa alla Commissione bicamerale d’inchiesta sul sistema d’accoglienza degli immigrati, incentrati sulla questione dell’identificazione e registrazione dei profughi approdati in Italia, illustrano che su 122.000 arrivi registrati finora nel 2015, i fotosegnalamenti sono stati 81.000, pari al 66% del totale, mentre 41.000 dei migranti sbarcati sulle nostre coste hanno rifiutato la procedura, avendo dalla loro il diritto al diniego. «Se lo straniero si rifiuta di venire identificato – ha riferito sempre la Stradiotto – non è possibile procedere al fotosegnalamento. Anche se si dovesse forzare fisicamente la persona a mettere la mano nello scanner per prendere le impronte, queste non sarebbero leggibili; così come le foto sono inutilizzabili se il soggetto non sta fermo e tiene gli occhi chiusi. C’è – ha concluso quindi il direttore del servizio di Polizia scientifica – una sentenza della Corte costituzionale che autorizza le forze di polizia a costringere lo straniero a farsi identificare, ma ci sono purtroppo dei passaggi tecnici assolutamente impossibili per noi da superare».

Questa problematica non solo mette a rischio la sicurezza dei cittadini ma rende anche molto difficile la distinzione di un immigrato da un altro, rendendo sempre più precario l’accordo sulle ripartizioni. Sembra inevitabile la considerazione che chi si rifiuta di farsi riconoscere non ha la necessità di ottenere lo status di rifugiato, in quanto chi necessita veramente di essere accolto in Italia o in Europa per i motivi elencati nella Convenzione di Ginevra, non avrebbe alcun motivo di fare resistenza durante le pratiche di riconoscimento, anzi.

Di fronte a questa sottilissima linea di confine nella distinzione tra “profugo” e clandestino, si pone il messaggio del Papa volto all’accoglienza di una famiglia di profughi per parrocchia.

Nel Padovano l’appello del pontefice ha avuto un grande riscontro, considerando anche che la diocesi di Padova conta 459 parrocchie. «Grazie alla Caritas» afferma Sara Melchiori, direttore dell’ufficio comunicazione della Diocesi «il piano di accoglienza è già stato progettato, alcune strutture sono state adeguate. Alcune piccole parrocchie si sono accorpate». Sono una decina le parrocchie che accolgono gli immigrati già da mesi. La media è di quattro, cinque profughi la volta. Commenta Il Mattino di Padova: “Uno degli esempi di integrazione è la parrocchia del Duomo di Santa Tecla, a Este, dove dallo scorso ottobre sono stati anche organizzati corsi di italiano e di “usi e costumi italiani” per permettere una completa integrazione. Nella gestione dell’accoglienza, evidentemente, si terrà conto della dimensione della parrocchia, della maggiore o minore capacità di sostegno.

A seguito della dichiarazione del Papa e nonostante l’impegno della Caritas ed altre svariate forme di associazionismo a favore dei profughi, l’Osservatorio sul Nord Est ha comunque rilevato che nel Nord-Est, un italiano su tre vorrebbe le frontiere chiuse. La condanna alla chiusura delle frontiere appare comunque più ampia in Italia (73%) che in Veneto, Friuli-Venezia Giulia e in provincia di Trento (63%), mentre di converso la giustificazione di tale scelta è più accentuata nel Nord Est (33%) che nel complesso della penisola (25%).

Ripartendo dalla problematica iniziale, e cioè che in Veneto vengono respinte il 60% delle richieste di status di rifugiato, per un complesso e criminale gioco di ricorsi e burocrazie, continueremo comunque a pagare ad libitum vitto e alloggio a coloro che hanno fatto ricorso, mentre cominceranno a farsi sentire le conseguenze di un’immigrazione clandestina che sfugge volutamente ai controlli, mentre i cancelli della ripartizione vengono progressivamente chiusi in faccia all’Italia.

L’importante sarebbe almeno riuscire ad individuare le famiglie dei profughi che andrebbero ospitate, in quanto dati alla mano (quelli dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati – U.N.H.C.R) sembra molto difficile: 13 % donne, 12% bambini, 75% uomini in età fra i 19 e i 45 anni…dati demografici che delineano più i tratti di una invasione che quelli di un disastro umanitario!

Gruppo Ricerche e Documenti – Immigrazione

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